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Davide Zugna

fotografo

con Davide ho lavorato numerose volte

ponti su acque agitate

Ieri sera, tornando, ho trovato una sorpresa. Dentro al portone di casa c’erano piccoli regali preparati per San Nicolò da una bambina. Figlia dei miei vicini. Piccola Costanza. Preparato da mamma e papà, ma sicuramente insieme a lei.
San Nicolò è un po ‘il “nonno dei bambini”, per noi che siamo di queste parti che stanno un po’ a est e un po’ al centro. Dovrebbe portare regali alle bambine e ai ragazzi che si sono comportati bene (alla fine porta i regali a tutti). San Nicolò, da noi, arriva di notte, la notte fra il 5 e il 6 di dicembre. Aspettavo anch’io San Nicolò, quando ero piccolo: quando avevo quattro o cinque anni, gli scrivevo una lettera chiedendogli il giocattolo che desideravo, sperando di essermelo meritato perché in fondo mi comportavo bene. Dicono che capisci di esser diventato grande quando ti rendi conto che San Nicolò è in realtà tuo papà e non esiste, è una storia e non un nonno vero. Uno dei momenti della tua vita di uomo, almeno. Quel momento, per me, era arrivato molto presto, e l’immagine di San Nicolò che camminava silenziosamente aprendo piano la porta di casa era scompasa all’improvviso. Ma forse è proprio per questo che lo porto ancora nel mio cuore.

Così, ieri, prima della mia lezione di fotografia, mi sono preso un momento per scendere giù in centro prima di rientrare nel quartiere di San Luigi dove abito, e ho comperato un piccolo Tigro per Costanza. Tigro è il mio preferito, della combriccola di Winnie Pooh: è sempre felice, sorride e salta sulla sua coda a molla, facendosi notare (a casa ho due o tre versioni di Tigro, e potresti pensare che io non sia tanto giusto se parlo ancora con i pupazzi a quarantadue anni; pensalo pure, io terrò comunque ancora i miei Tigri con me). Con la scatola per Costanza in una mano e il mio ombrello vecchio e piegato nell’altra (il piccolo Tigro era al sicuro lì dentro, al caldo e protetto dalla pioggia), ho camminato per un pò tra i negozi e il mercato della fiera del Viale. Una studentessa con un cappello rosso di Natale mi ha bloccato per darmi i volantini con la pubblicità di un nuovo negozio, poi è scappata per fermare altre persone; in un angolo, sotto un arco, un artista di strada stava disegnando Gesù, preparando i gessetti per colorarlo. Quello che ho capito all’improvviso, camminando, è che negli occhi delle persone non trovavo gioia. I loro occhi non sorridevano. Il Natale sta arrivando, e dovrebbe essere un momento di felicità, ma non mi sembra che sia così. Negli anni passati, ricordo che di gioia ne vedevo; forse quest’anno non c’era gioia in me, mentre un anno fa ero stato così felice, ma negli occhi della gente quella gioia c’era. Non questa volta.

Noi italiani siamo ancora persone gioiose. Puoi vedere la gioia negli occhi della ragazza che vende castagne arrostite all’angolo della scuola e sentire il calore del suo sorriso, o trovarla negli occhi della mamma che compra la scatola Lego Atlantis per il suo bambino, o nella coppia d’innamorati che cammina mano nella mano accanto al gazebo della fiera. Osservando le cose semplici che vendono, comprando qualcosa di piccolo solo per portare un pacchettino colorato a casa. C’è gioia, lì. Eppure, oggi ho l’impressione che questa gioia abbia un velo di incertezza. In queste settimane piene di musica per le strade e luci natalizie sulle insegne dei negozi, non posso far altro che vedere che la maggior parte di questi negozi sono mezzi vuoti. Molti camminano in fretta, mani vuote al posto dei regali per bambini e persone care. Volti persi nei pensieri. I giornali sono pieni di notizie su Silvio Berlusconi che combatte con Gianfranco Fini, e poi c’è Mara – “il ministro più bello d’Europa”. Nel frattempo, nella prima pagina, ci sono i risultati dell’ultima partita di calcio tra Napoli e Milano, eppure gli stadi sono ormai quasi vuoti. Sugli stessi giornali non trovi qualcuno che abbia un’idea per fare in modo che la benzina non costi un euro e quarantacinque al litro o per evitare che ti arrivi una bolletta della luce che pesa il trenta per cento in più degli anni passati. Gli italiani hanno un peso, dentro di loro. Ho viaggiato parecchio, e non l’ho visto negli occhi delle persone dei paesi in cui sono stato. Ho visto città e nazioni con grossi problemi (possiamo dire di vivere in paradiso, se proviamo solo per un momento a confrontare la nostra bella Italia della quale spesso parliamo male, con la maggior parte degli altri luoghi), ma ho sempre trovato persone sorridenti. Ne parlavo ieri sera con Mauro, il fotografo da strada: nelle nostre foto, in Italia, non sorridiamo più. I nostri volti sono noiosi.
Sorrideremo di nuovo. Vedo i giovani e trovo ancora entusiasmo, trovo la volontà di far meglio. Faremo meglio; il nostro è ancora un grande paese. Ma questo Natale, in Italia, mi sembra freddo.

[questo accadeva nel 2010. Sono passati tredici anni e presto arriverà anche il 6 dicembre 2023. Il sorriso mio ritrovato è rimasto, tutte le cose che ho scoperto fra il 2012 e il 2016, anche se il poterle condividere con chi amavo è durato tanto e troppo poco allo stesso tempo e nel 2016 è finito, mi hanno lasciato dentro tanto. Berlusconi ha chiuso la sua storia e sarà presto dimenticato ed è il destino di tutti, la benzina oggi è a due euro, quasi tre anni di prigionia da Covid ci hanno trasformati e poi è scoppiata una guerra priva di qualsiasi significato che non sia quello dello scontro economico. La necessità di creare un nuovo mercato. Nonostante tutto questo, il sorriso negli occhi dei giovani è rimasto forte. Per la generazione del Boom, e per quelli che vengono subito dopo, a cui abbiamo lasciato una terribile eredità, è rimasto invece tutto come in quel San Nicolò 2010: una moltitudine di facce, tutte prive di nome]

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