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oggi arriva da ieri

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“Osservando gli avventori di un bar, qualcuno mi ha detto giustamente: ‘Guarda come sono spenti; al giorno d’oggi, le immagini sono più vive delle persone’. Uno dei segni distintivi del nostro tempo è forse questo rovesciamento: noi viviamo conformemente a un immaginario generalizzato… ciò che caratterizza le società cosiddette avanzate, è che oggi tali società consumano immagini e non più, come quelle del passato, credenze”. Nella comunicazione di veniamo messi di fronte a nuove sfide che richiedono una rapida comprensione di ciò che sta accadendo, delle potenzialità insite nella trasformazione e dei nuovi messaggi da veicolare; spessissimo, non li capiamo. Circondati, siamo soli; i messaggi si spengono anch’essi, e scompaiono fra gli avventori del bar.

apollo undici

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per quanto incredibile possa sembrare, ero abbastanza giovane in quel momento, sono chiaramente sicuro che il mio primo ricordo sia un fotogramma, una stanza con delle persone, dove succede qualcosa. credo sia lo sbarco sulla luna, millenovecentosessantanove. apollo undici. era una tale confusione. non ricordo molto altro dei miei anni da bambino, qualche ricordo dei primi anni di scuola. solo un paio di foto nella mia mente, una è mia madre che legge topolino per me, noi due soli durante la notte. l’altro sono io che scappo via da angiolina, ridendo, felice come può esserlo un bambino di quattro o cinque anni mentre la nonna si dispera e l’insegue. poi la finestra della classe, il primo giorno di scuola, e un senso di solitudine. nato nel sessantotto, avevo un anno e mezzo, ma sono sicuro di avere nella memora l’atterraggio di apollo: ricordare frammenti prima dei tre anni d’età è raro ma non impossibile. mio padre, in un certo senso, era un sognatore come me; anni dopo mi diedero una medaglia d’argento con sopra John Kennedy. altri anni dopo mi avrebbero raccontato del millenovecentosessantatre, e mi avrebbero detto che papà ammirava Kennedy. ed è molto importante anche per me. la medaglia purtroppo non c’è più

io

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sono nato a trieste più di cinquant’anni fa; a trieste ho vissuto e vivo, l’ho lasciata molte volte per lavoro, piacere o passione, andando dal nord all’atlantico, dal centro di un’europa che non vogliamo lasciare in pace, fatta anche del cognome che porto, al medio oriente, senza mai pensare di non volerci, alla fine, in questa trieste ruvida, tornare. chi nasce sul mare, sul mare resta. trieste è sempre stata la mia prima casa; la seconda è vicina a clontarf road, e in questo, e nel vento forse, c’è un pezzetto d’un joyce non cercato. nonostante le esortazioni della mia insegnante d’italiano, invece della scuola di giornalismo ho scelto un percorso diverso: la voglia di diventare grande presto, e di poter comprare il motorino, era, in quegli anni ottanta, troppo forte. al giornalismo, la mia professione di oggi e sono ormai dieci, ci sono tornato più tardi, dopo tre grandi aziende dai motori alla tecnologia, una maturità vissuta fra un internet agli albori, niente figli e alcuni amori, e tante altre cose con cui confrontarsi. da qualche tempo oltre alle parole mi sono compagne anche le fotografie che scatto, e che condivido con piacere, in cerca di niente se non di sorrisi e altre foto. questo è un sito fatto solo di questo, un diario in immagini tutte mie, senza lettere maiuscole e senza altro fine. il sito non ha una logica, è fatto d’immagini e pensieri che fra le pagine che scorrono arrivano, vanno e ritornano: cifra della vita

il non professionismo

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[Alfred Stieglitz] “Let me here call attention to one of the most universally popular mistakes that have to do with photography—that of classing supposedly excellent work as professional, and using the term amateur to convey the idea of immature productions and to excuse atrociously poor photographs. As a matter of fact nearly all the greatest work is being, and has always been done, by those who are following photography for the love of it, and not merely for financial reasons. As the name implies, an amateur is one who works for love; and viewed in this light the incorrectness of the popular classification is readily apparent.” (Alfred Stieglitz) (The Photo-Secession)

E, in italiano: “Lasciatemi richiamare l’attenzione su uno degli errori più universalmente popolari che hanno a che fare con la fotografia: quello di classificare come presumibilmente eccellente il lavoro di un professionista, e usare il termine dilettante o amatore per trasmettere l’idea di produzioni immature giustificando così fotografie atrocemente povere. È un dato di fatto che quasi tutta l’opera più grande sia, e sia sempre stata, opera di coloro che stanno seguendo la fotografia per amore di essa, e non solo per motivi finanziari. Come suggerisce il nome, un amatore è uno che lavora per amore; e, vista in questa luce, la scorrettezza della popolare classificazione è evidente.”

fantasia per immaginare il fuori

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la fantasia è invece, per definizione, la capacità di immaginare e poi creare cose improbabili e non realistiche. Immagini che la nostra mente ci restituisce quando abbiamo bisogno di qualcosa. Spesso facciamo poi di tutto per fare in modo che quelle cose prendano forma, diventino vere, ed è sempre fantasia, che si trasforma nel processo che mettiamo in atto quando proiettiamo qualcosa fuori dopo averlo sentito dentro. La fantasia non mi è mai mancata, ha sempre riempito le mie giornate: prima disegnavo, poi ho iniziato a scrivere e oggi scrivo ancora di più, poi le foto. Ci sono stati momenti molto difficili in cui ho pensato di averla perduta, e invece è sempre tornata. È per questo, in fin dei conti, che non amo la fotografia digitale, pur essendo quella che faccio di più ma è solo una questione di tempo che manca. Le foto digitali sono troppo belle; troppo perfette, troppo uguali l’una all’altra.

immagine imitazione

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Una decina d’anni dopo la metà del Novecento, Roland Barthes, parlando di fotografie, sottolineò come la parola ‘immagine’ derivasse dal termine latino che significava ‘imitazione’. Partendo da questo, pose una questione che mi interessa sempre: possono, le immagini, per davvero essere un veicolo di significati, nel momento in cui sono esse stesse imitazioni o rappresentazioni dirette di qualcosa? È per davvero possibile che l’immagine costituisca un linguaggio? Se è così, come possiamo, utilizzando questo linguaggio, comprendere il significato di ciò che vediamo in una foto? Barthes utilizzò le immagini pubblicitarie per analizzare la questione, proprio perché esse vengono costruite per avere un significato e per trasmetterlo.

Per me la fotografia, sia il ritratto che la cattura di scene urbane, gli oggetti inanimati e persino il nudo e l’erotico, è sempre stata uno strumento con il quale cercare di parlare agli altri in un altro modo, a volte per superare le limitazioni del linguaggio o, se non di esso, le difficoltà che s’incontrano a volte cercando di farsi capire. All’inizio è stato qualcosa di fatto inconsapevolmente; poi, con il tempo, è diventata una scelta. Un modo per esprimere me stesso, per mettermi in gioco nella foto.

They got no human grace

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Yeah, I’m on this bus on a psychedelic tripI’m reading murder books, tryin’ to stay hipAnd I’m thinkin’ of you, you’re out there

eyes without a face

Be yourself, no matter what they say

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Be yourself, no matter what they say.
Takes more than combat gear to make a man
Takes more than a license for a gun
Confront your enemies, avoid them when you can
A gentleman will walk but never run.

Erase and rewind

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Cause I’ve been changing my mind. Ci sono cose che ricordiamo per sempre e altre che dimentichiamo in un attimo. Non c’è certezza, naturalmente, in merito al meccanismo che il nostro cervello usa, ed esistono due scuole di pensiero su cosa si ricordi di più: l’una dice le cose peggiori, perché l’istinto di conservazione della specie tende a proteggerci e a farci ricordare che l’acqua bollente scotta, l’altra dice le cose più belle, perché ci rendono più felici e ci fanno resistere meglio quando incontriamo difficoltà. L’idea che siano i ricordi di episodi negativi a svanire per primi, contrariamente a quanto si pensa, è stata proposta già nel 1930: dopo una ricerca a campione, un gruppo di ricercatori pubblicò dati che parlavano di un 60 per cento di brutti ricordi scomparsi, contro un 40 per cento di cose belle dimenticate. Questi studi vennero riproposti negli anni Settanta, in modo più rigoroso (si propose ai partecipanti di tenere un diario e di scrivere delle emozioni più intense e dei ricordi che lasciavano, per un periodo più lungo); il campo di studio si estese poi a eventi casuali e si coinvolsero culture diverse da quella americana che era stata la base di riferimento per le prime ricerche, analizzando dieci nazioni, dalla Nuova Zelanda alla Germania al Ghana. Per farla breve, i risultati dei primi studi vennero confermati: i brutti ricordi sembrano per davvero andarsene più velocemente, e secondo i ricercatori questo ci aiuta a elaborare le emozioni e gli eventi negativi, e ad adattarci al cambiamento mantenendo viva la speranza di un domani migliore. C’è un gruppo di soggetti però, donne e uomini, che fa fatica a dimenticare: sono quelli in cui vengono riscontrati stati di depressione, e proprio questo potrebbe spiegare come mai chi ne soffre tende ad avvitarsi in una spirale che porta a vedere ogni giorno che passa come peggiore di quello precedente, anche se non è così. È per questo che uno dei metodi di sostegno, spesso di ausilio a una terapia, è quello di creare una mappa mentale dei ricordi belli, un percorso attraverso il quale si cerca di richiamare ogni giorno una sensazione positiva che chi sta male ha per davvero vissuto, e che lo fa sentire meglio, di settimana in settimana. Certi giorni sono sempre più difficili di altri; altri giorni diventano improvvisamente belli.