Home Blog Page 2

sam8centimetri. Never going home

0

Music (we can do it). We’re only human (I can feel it). Music (got me, hit it). Yeah, let’s repeat it (can you feel it?). If you wanna ride, come ride with me. Take me by the hand, feel the chemistry. Losing track of time in the ecstasy. It’s getting out of hand, it’s just you and me. And we are never going home, oh-whoa, oh-whoa.

Sam 8 centimetri, il mio piccolo amico superdotato, ha viaggiato con me in tutte le mie automobili, dal primo chilometro dell’Alfa rossa a guida inesperta finestrini manuali e clacson rotto, fino all’ultimo, piuttosto stanco, della Volvo con il turbocompressore otturato. Accompagnandomi sulla Prelude dei giorni più felici da Monaco a Tatti, sull’Audi della maturità da Genova ad Amburgo, per qualche tragitto sull’Y10 bianca nelle strade di casa mia e infine da Bologna a Vienna sulla dannata Volvo Kinetic configurazione nordica, l’auto che non avrei mai voluto e che pure è stata l’unica che io abbia mai preso nuova, che ha fatto ormai nove traslochi (uno mio e nove no), che porta con sé più ricordi brutti che momenti belli, e che però non se ne vuole mai andare. Scherzi a parte, è sempre stata generosa con me, la Volvo: fedele nonostante la trascuratezza e le male parole, ed è giusto tributarle riconoscenza, in fondo appunto c’è ancora. Assieme a Sam, grigio ormai di capelli, ma sempre con i suoi 8 centimetri.

If you wanna fly, come fly with me. We’ll go anywhere that you wanna be. If you’re feeling down, here’s the remedy. Losing track of time, it’s just you and me. And we are never going home, oh-whoa, oh-whoa.

ritratto. Wouldn’t it be good

We got the pleasure in the right way. Il ritratto è da sempre un modo di raccontare una persona, di parlare di lei o di lui senza che le parole siano necessarie. Attraverso la storia, il ritratto è stato molte cose: una maniera per rappresentare con semplicità un viso, uno strumento per descrivere un contesto, un omaggio a una figura potente o a un dio. Nella società dell’immagine, quella di oggi, si è evoluto fino a diventare prima fonte d’ispirazione, poi astratto e poi, con l’intelligenza artificiale, persino irreale nella sua inequivocabile realtà. Chiunque sia il soggetto, il ritratto cerca di rivelare la sua espressione più intima, di catturare l’emozione di un momento che altrimenti verrebbe per sempre persa. La fotografia, peraltro, e quella digitale incredibilmente molto di più di quella stampata su carta, si perde per sempre in un attimo. Attraverso il ritratto, il soggetto rivela la sua natura all’artista, si mette a nudo o viene messo a nudo come più maestri fotografi, e meno pittori, hanno detto?

Il ritratto rivela la personalità di chi sta di fronte all’obiettivo? Niente potrebbe essere meno sicuro e anzi, e meglio: niente potrebbe essere più falso. In effetti, che cosa c’è di più semplice del nascondere la propria identità dietro una maschera o un personaggio, come si fa con il viso ammantato di trucco sul palcoscenico di un teatro? Il viso è la parte più in mostra del nostro corpo, eppure rimane, attraverso la storia, la più misteriosa, quella che più si presta al racconto e al romanzo, al sacrificio, all’amore e all’inganno. Specchio dei sentimenti, o corazza dell’animo. La tecnica e l’intuizione creativa permettono a un bravo fotografo ritrattista di usare le espressioni per inventare le emozioni, eppure allo stesso modo si può essere capaci di intravedere e catturare la spontaneità. Inutile perdersi qui a dire che bisogna essere capaci, come fotografi, di capire la fisicità del soggetto nel suo complesso, di trovarsi in sintonia con il suo modo di essere e di esprimersi, di capirne lo stato d’animo; inutile parlare di luci, fondali e colori, questo non è un blog sul quale si insegna la fotografia. Al massimo se ne può scrivere di getto, lasciando alle foto il ruolo di protagonista. Vanità. Day by day by day by day: è più facile capire la verità e la vita, se si pensa che siano un gioco.

le tribolazioni di un italiano in Italia

0

Il piccolo borghese Ita-Lian scopre di essere andato in rovina a seguito delle speculazioni finanziarie delle banche e di chi, a seguito di oscure trame di potere, per politica o semplicemente per dabbenaggine mista a egoismo, ha approfittato di una guerra e di una pandemia. Temendo l’abbassamento del suo livello sociale e la fine della vita di piccoli agi a cui è abituato, Ita-Lian decide di suicidarsi, ma non avendo il coraggio per farlo da solo incarica dell’opera il suo amico Wang, presidente del suo ordine professionale, che è parte della pubblica amministrazione e quindi organo vivente della Nomenclatura dello Stato. Per dare ulteriore motivazione al presidente, Ita-Lian stipula una ricca polizza sulla vita indicando come beneficiari la sua vecchia giovane innamorata Le-U e Wang stesso. Infine, per scagionarlo da ogni conseguenza penale, gli spedisce una email liberatoria contenente un pdf firmato con estensione .p7m, che lo assolve da ogni responsabilità. Wang scompare in attesa di eseguire il compito entro il 31 di gennaio, data di scadenza del pagamento per l’iscrizione annuale, ma, pochi giorni dopo, arriva il colpo di scena: la speculazione ha avuto successo e ora Ita-Lian è più ricco di prima. La gioia per la notizia è oscurata dalla spada di Damocle che pende sulla testa di Ita-Lian: se non riuscirà ad avvisare Wang della sua mutata fortuna e a pagare il canone via Internet con PagoPA, quest’ultimo lo ucciderà, come da precedente accordo. Ecco che allora si mette in viaggio alla ricerca dell’amico Wang assieme a un commercialista, a un tecnico informatico e a un consulente del lavoro, dando il via a una lunga serie di vicende e di ulteriori colpi di scena.

occasioni uniche. Identità di genere

0

Il tema è talmente sensibile da essere, oggi, più infiammabile, e spesso tossico, del propellente avio. Avvicinarsi a un’opinione sul binario o non binario che non sia essa stessa binaria (sì/no), ed esprimerla pubblicamente, può voler dire rischiare l’ostracismo o ritrovarsi appiccicata addosso per sempre l’etichetta di ‘boomer’. Essere ‘fluido’ vuol dire non essere né sessualmente uomo, né donna (biologicamente, con buona pace di chiunque, l’appartenenza a un genere ben preciso alla nascita non si può negare); essere fluido vuol dire sentirsi sia uomo che donna, identificarsi in entrambi, ma siccome questo è impossibile, sempre per le note difficoltà biologiche, vuol dire provare attrazione sessuale ma soprattutto, penso che questo sia più importante, impulso emotivo (innamoramento? Amore?) indifferentemente per una donna o per un uomo. Un fenomeno sempre più diffuso in Italia; già molti anni fa ho partecipato, con piacere e anche con una punta d’orgoglio, con le mie fotografie a più di un progetto sull’omosessualità. Nella sessione fotografica e video conclusiva di un progetto musicale proprio su questo tema, tutto si è concluso con un coming out, ed è stato un bel momento. Ho amici omosessuali, donne e uomini, di diverse età; purtroppo li incontro poco, questo però accade perché il tempo ti distanzia e per nessun altro motivo.

Il tutto, altrimenti mi dilungo troppo, per dire che è proprio per questo che non credo nella fluidità di genere. Temo che il business alle sue spalle sia talmente grande, e talmente influente, da mettere a rischio, presentando loro modelli e mode, molti adolescenti. Se un ragazzo o una ragazza adolescente si sente oggi, in Italia, confusa o confuso, non è certamente da solo: i modelli della mia ‘Generazione X’ sono completamente caduti e la generazione che ha seguito la mia è stata in grado di proporre, pur nel timore dell’Aids, la libertà sessuale totale e assoluta (in termini di individualità e di ricerca di godimento nel rapporto sessuale con l’esclusione a priori dell’idea dei figli, iperbolicamente scrivendo) ma non di identificare modelli sociali nuovi che potessero prendere il posto di quelli cancellati. I nativi digitali sono quindi oggi da soli a cercare sé stessi: moltissimi adolescenti mettono in dubbio la loro appartenenza a un genere sessuale, sia maschi che femmine, e dicono di non capire se si sentono uomini, donne, tutti e due, nessuno o qualcosa. Alcune nazioni, anche se oltre al business c’è anche la politica a dire la sua, accettano meglio di altre le differenze di genere, l’Italia non è in una posizione altissima della classifica e oggi presumibilmente lo è meno di prima, più per troppa vicinanza al centro cattolico che per timori derivanti da derive a destra. Per un adolescente, poter dire di sentirsi per davvero appartenente a un genere, in un 2022 in cui certo il modello maschile non è più John Rambo né quello femminile è Sharon Stone, è complesso, in particolare se gli interessi, le attitudini e la vita sociale non coincidono più con le aspettative della società stessa nei confronti del genere di appartenenza alla nascita, di cui si parlava all’inizio. La pubertà è il periodo indubbiamente più difficile ed è per questo che una confusione e un desiderio di fluidità, e la possibilità che ci sia vero amore, e vera attrazione sessuale, nei confronti dell’amico o dell’amica più cara è tutto fuorché strano, è qualsiasi cosa tranne che contro natura e non ci sono di mezzo nessuna malattia e nessun problema mentale. Il corpo cambia; la vita cambia. Questi cambiamenti vanno per forza descritti, è proprio necessario incasellarli in un: sono gay, sono lesbica, sono bisessuale, sono polisessuale o pansessuale o asessuale? Io non credo. Trovo ridicoli gli acronimi (anche le Quote Rosa, a dire il vero). In fin dei conti non credo neppure che, nella vita adulta, l’identità di genere e l’orientamento sessuale possano essere per davvero considerate, e manifestate, in modo separato. O che cambino, adolescenza alle spalle, con il tempo: ecco, questo è importante. Se, ed è una certezza, la discriminazione di qualsiasi natura può significare la perdita d’autostima e un pozzo di tristezza, di disperazione per una ragazza o un ragazzo, la depressione e l’isolamento dagli altri, forzarlo verso la fluidità, magari spingerlo in un modo o nell’altro e anche indirettamente verso le terapie ormonali anche perché esistono vie parallele che permettono di mettersi in mostra (Onlyfans: e cosa desideriamo, noi, più di ogni altra cosa se non l’autoaffermazione?) – terapie oggi reversibili ma mai del tutto, può provocare la stessa situazione, che peggiora con il passare degli anni. Gli anni Settanta hanno sdoganato la pornografia: c’era bisogno di fare del business, un mercato di grandissimo potenziale andava riempito, e tutti i peli del corpo scomparvero, rovinavano le riprese, soprattutto in primissimo piano. L’eiaculazione dev’essere pulita, con tutti i dettagli. Gli anni Venti del duemila stanno sdoganando la fluidità di genere: c’è un nuovo mercato, forse di potenziale ancora più grande, da riempire con abbigliamento, colori e giochi, e il sogno erotico non è più l’illegale Lolita ma il transessuale o, ancora meglio, la (il?) Sissy e si scopre che lo è anche per molte donne. Siamo ben oltre l’accettazione, che finalmente è arrivata, della naturalezza dell’omosessualità. Questo nuovo mercato fluido lo guardo con inquietudine.

generazione. X senza meta o rotta

0

C’è una scena in ‘Metropolitan’ (film cult di Whit Stillman, che nel 1990 rappresentava il quarantenne di oggi, la cosiddetta ‘Generazione X’, durante gli anni del college); in questa scena due ragazzi incontrano in un bar, a Manhattan, una strana forma di vita: un quarantenne. L’uomo, tra un drink e l’altro, spiega loro due dolorose verità. La prima è che amici e ragazze che avevi a diciannove anni e che credevi sarebbero stati tuoi amici per tutta la vita – diventeranno, crescendo, estranei a te. La seconda è che quando sei ‘quarantenne’, quando incontrerai qualcuno della tua stessa età che ha avuto più successo di te nella sua vita, non risponderai a cuor leggero quando ti chiederà: ‘Qual è il tuo lavoro’.

Perché quando hai vent’anni la possibilità di non diventare ciò che sogni è fuori dal tuo radar. A trent’anni, sei un po’ preoccupato. A quaranta, sei sicuro di non averlo fatto: sei sicuro di essere passato dallo status di ‘troppo giovane’ a quello di ‘troppo vecchio’, perché anche in un paese dimensionato per i sessanta come l’Italia è, non puoi fingere, a quaranta, di essere considerato – a parte gli apprezzamenti che provengono dal tuo simpatico zio – giovane. Il New York Times ha recentemente scritto della ‘crisi che precede la mezza età che si diffonde tra la gente della ‘Generation X’ (nata, più o meno, tra il 1964 e il 1979, resa immortale da Douglas Coupland nel suo libro dallo stesso titolo, ‘Generazione X’); hanno citato ‘Greenberg’ come esempio, il film con Ben Stiller musicista ‘quarantenne’ che ha fallito nella sua vita, costretto a vivere nella casa di suo fratello: perfetto esempio di un eterno adolescente che affronta la morte di tutte le sue speranze. Il New York Times ci dice che è una contraddizione: ‘Com’è possibile che la generazione che sceglie di avere come segno culturale il rifiuto di crescere, com’è possibile che ora questa generazione abbia una crisi di mezza età?’. Questa generazione ha quell’ ‘abbiamo fatto del nostro meglio’ come motto, e spesso, a quarant’anni, scopre che tutto si è svolto al di sotto delle aspettative: delle sue aspettative, e di altre. Chi non ha mai abbandonato l’adolescenza – perché era pigro, o forse per non diventare come i ‘vecchi’, ora dopo il quarantesimo compleanno scopre di essere nei panni degli altri, vestendo gli abiti della maturità in modo incerto. Un libro che sta per essere pubblicato negli Stati Uniti, ‘Imperial Beedrooms’ di Bret Easton Ellis, è la continuazione, venticinque anni dopo, di ‘Less Than Zero’ (edito da Einaudi), pietra miliare della ‘Generation X’. Dopo molto tempo, i personaggi di Ellis non sono cambiati affatto, rallentati dai loro stessi limiti: e uno di loro muore. Almeno un altro romanzo, ‘Indecision’ di Benjamin Kunkel (pubblicato nel 2006 da Rizzoli) ha detto le stesse cose, mascherandole, tuttavia, con le scuse sulla ‘pillola che cura l’incertezza’. Ahimè; esiste solo nell’immaginazione dell’autore. E così sei da solo, ad aspettare in fila in un negozio di videogiochi, sentendoti a disagio per essere circondato da ragazzi delle scuole elementari (a proposito, nei tuoi giochi vincono sempre, e tu perdi). E il tuo caro amico commenta che i tuoi capelli bianchi sulle tempie hanno un fascino, ‘l’uomo maturo ha il suo fascino’ – e tu pensi: ‘maturo’?, sì, in molti sensi.

La maturità è negli occhi di chi guarda (dentro sé stesso), specialmente per coloro che si sforzavano di essere ‘diversi dalla generazione precedente che li precedeva’. Avevano ideologie forti, erano legati al potere accumulato (grande potere, piccola potenza). Erano nostalgici nei confronti di quell’Italia in bianco e nero e ricordavano ‘Carosello’, che per te non è mai esistito. O lo ricordi a malapena. Quello che hai cercato di fare, crescere, è stato un tentativo: cerca di essere un buon marito, prova ad essere un buon padre, proprietario di una casa acquistata con un mutuo a tasso variabile, un uomo diverso da mariti, padri ed eccetera che hai visto – e non giudicato – della ‘generazione precedente’. Alla fine hai capito, durante una notturna maratona di videogiochi, che eri sepolto nel divano di casa esattamente come lo erano loro e che la tua volontà di trovare un modo diverso di diventare adulto colpiva la realtà di molti alibi che era sempre così bello scoprire. Si trova sempre un nuovo alibi per qualcosa. Ecco perché il tuo quarantesimo compleanno è stato anche un’esperienza meno piacevole rispetto al quarantesimo compleanno della ‘generazione precedente’. Per proteggerti dalle conseguenze delle aspettative mancate sul tuo futuro, quando il futuro finalmente è lì, anche schermarti con l’ironia non è abbastanza. L’ironia, come tutti sanno, è l’arma dei deboli.

[“Il Corriere della Sera” del giugno 2010. Sotto l’articolo, un commento: “Ma va là… oggi a quarant’anni si cambia vita, e si ricomincia… se davanti ne hai ancora almeno 40, qualcosa dovrai pur fare, no?”. Disegna perfettamente la mia generazione, incapace di capire che il tempo scorre in una sola direzione e che non si ricomincia mai. E che se qualcuno ti ha fatto veramente credere che ha 40 anni davanti ne hai altri 40, hai sbagliato candeggio. Nel frattempo, da questo articolo di compleanni ne sono passati altri dodici]

secondo sesso potere primo

0

Nel “Secondo sesso” (1949), una delle sue pubblicazioni più note che si riassume in mille pagine di critica in due volumi alla società patriarcale, Simone de Beauvoir analizza la situazione delle donne (del tempo). Il libro è la pietra su cui il femminismo moderno (ma dell’epoca) fonda la sua chiesa. Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir è un filosofo (maschile voluto) esistenzialista, figlia di un’agiata famiglia parigina (padre avvocato con aspirazioni d’attore, madre nata da un ricco banchiere); la famiglia, dopo il primo conflitto mondiale, perde gran parte della sua fortuna ma ne resta a sufficienza da permettere a Simone di studiare alla Sorbona e di fare l’intellettuale. Beauvoir, che avrà una vita talmente ricca di relazioni aperte e di amanti di ambo i sessi al punto da mettere in ombra il suo indubbio spessore accademico e il suo forte e risoluto impegno politico, sarà poi compagna per cinquant’anni, ma libera e senza figli, di Jean-Paul Sartre. Dirà e scriverà con convinzione che donne non si nasce, ma si diventa, e che il genere è un costrutto sociale e non un’identità biologica.

Nel “Secondo sesso” Beauvoir parla della Bibbia e della mitologia, sostenendo che le donne fossero etichettate come “altri”, considerate inferiori agli uomini e rappresentate come la parte colpevole o debole del creato. Secondo Beauvoir, è stato l’uomo a definire la donna come il lato inferiore della medaglia dell’umanità e a privarla del diritto a ricoprire ruoli di responsabilità. Nel suo altro libro, il “Manifesto” (1971) scriverà: “Avrò un figlio se ne vorrò uno, senza pressioni morali, istituzionali o economiche che mi obblighino a una scelta”. Dirà anche: “Il punto per le donne non è semplicemente togliere il potere dalle mani degli uomini, perché questo non farebbe cambiare niente nel mondo. È quella nozione di potere che va distrutta”. Suella Braverman, Olena Zelenska, Sanna Marin, Elizabeth Truss, Zuzana Caputova, Katerina Sakellaropoulou, Kersti Kaljulaid, Magdalena Andersson, Ingrida Simonyte, Katalin Novak, Ursula von der Leyen, Roberta Metsola, Mette Frederiksen, Elisabeth Borne, Salome Zurabishvili, Katrin Jakobsdottir, Vjosa Osmani, Maia Sandu, Natalia Gavrilita, Ana Brnabic, Nicola Sturgeon. Giorgia Meloni.

salto. Casa è il Dart che ferma a Clontarf

0

Niente può toglierti i desideri, o cancellare i sogni. Oggi desidero essere a casa. Nel mio cuore, la casa non è il luogo in cui sono nato. Amo Trieste, sono felice di viverci; vivere qui non è più vivere a casa. Non è il posto dove desidero essere ora. La casa è Marino. La casa è Dublino. La casa è la cena con Joe e Ann, la casa è dove sto parlando con Ciaran, il Trinity, al pub. La casa è il vento tra i capelli e nei miei occhi. La casa è il ponte e il castello e il Dart, la casa è camminare mano nella mano, giù sul lato del Liffey. La casa è la vigilia del nuovo anno, insieme, sul tappeto blu, accanto all’albero. La casa è lì, per me; lo sarà sempre. La casa è il 1999; oggi voglio tornare a casa.

why the it nella vita di ieri e di oggi

0

Dodici anni fa, nel 2010, scrivevo sul blog di star vedendo ogni giorno più persone unirsi alla comunità di Internet; notavo in particolare che una gran parte di esse non apparteneva più alla famiglia degli specialisti del computer o dei nerd, si trattava invece di persone che usano un computer così come mia madre usava allora il telefono o il televisore. Oggi come dodici anni fa definirò l’Information Technology – la tecnologia dell’informazione – come la capacità di mettere insieme le cose, applicare un’idea (aggiungendoci anche un po’ di intelligenza) e rendere il sistema risultante in grado di fornirti un’informazione. Di qualsiasi tipo. Le cose dell’IT possono avere un componente materiale, come la tastiera di un computer e tutto ciò che c’è al suo interno; le cose possono essere semplicemente idee, immateriali, come le istruzioni date a un computer o a un insieme di computer attraverso la programmazione. La tecnologia le elabora per te, e alla fine di questo processo ci sono delle informazioni. Queste informazioni possono essere semplici risposte a domande che potresti avere, domande come: “Qual è la linea di autobus che porta alla stazione?”, o calcoli complessi come la mappa del genoma umano o i milioni di anni di vita di una stella. Queste informazioni possono anche essere un’altra informazione che può essere utilizzata per un nuovo calcolo, in una sequenza di azioni: pensa a una nave, che ha una rotta verso la sua destinazione, una rotta che deve essere seguita punto dopo punto per raggiungere il porto di destinazione. Bene, questa definizione di Information Technology è schietta, precisa. Ma volevo mantenerla semplice, guardandola nello stesso modo in cui la guardo tutti i giorni. Come ho scritto, alcune persone amano la tecnologia anche se è fine a sé stessa. Io no. Mi piace mettere insieme le cose, mi piacciono i risultati e mi piace molto l’output, molto più della tecnologia che sta dietro, anche per questo la fotografia digitale per me è un mezzo e non il fine.

La scienza missilistica – da Von Braun, Laika, Gagarin, ai radiotelescopi, a tutti gli scrittori dal 1950 al 1975, da “Star Trek” alla “Fondazione” e da “2001: A Space Odissey” (1968), all’atterraggio lunare di Apollo (1969) e allo Shuttle (“Guerre Stellari” è invece un bel Fantasy) hanno avuto un grande impatto sulla mia generazione. Stavamo sognando di andare sulle stelle, di far parte di un viaggio verso lo spazio, di poter incontrare esseri di un altro pianeta. No, non dico “Boldly go”: era qualcosa di diverso. Da ragazzo, durante i miei primi anni di scuola, ero assolutamente sicuro che un giorno l’uomo avrebbe incontrato civiltà millenarie, sconosciute e non terrene. Nella mia mente tutto questo non era finzione o speranza: ne ero semplicemente sicuro. Guardavo questa serie televisiva, “Spazio: 1999” (avevo la tivù a valvole, in quegli anni, solo immagini in bianco e nero col primo e secondo canale, Silvio Berlusconi stava muovendo i primi passi nella pubblicità italiana e Goldrake non c’era ancora). In “Spazio: 1999” c’era questo scienziato, Victor Bergman: il mio personaggio preferito. Victor Bergman lavorava in squadra con David Kano. David era lo specialista di computer della Base Alpha, una base sulla luna, naturalmente (retaggio di una serie di poco precedente, UFO, nella quale spiccava Gabrielle Drake primo sogno erotico di allora ed è bella ancora oggi, a quasi ottant’anni). Alpha Moon Base aveva questo computer grande e nero (qualcuno sta pensando all’IBM?), con la voce metallica (i calcolatori di un tempo avevano tutti la voce metallica, non come Alexa) che usciva dagli altoparlanti vicino ai monitor di servizio; Victor e David solevano porre domande complesse al computer e il computer, a parte un caso solo e proprio all’inizio della storia, aveva sempre una risposta, meravigliosamente scritta su un piccolo pezzo di carta termica (una specie di scontrino del supermercato) che David leggeva al pubblico di spettatori (ricordo che era solito trovare molte cose, sul quel pezzo di carta: lunghe discussioni e lunghe spiegazioni). Il computer della Base Alfa aveva una risposta per Victor, per David e per i trecento abbandonati nello spazio. Non erano soli: il computer era lì per aiutarli. Quindi, con l’entusiasmo del ragazzo, avevo immaginato che se fossi stato capace di programmare un computer e fare in modo che fosse come quello della Base Alfa avrei potuto aiutare gli altri ma prima di tutto aiutare me stesso. A mettere insieme le cose. Per avere risposte alle domande, e ne avevo tante, almeno tante quanto la fantasia. Quindi il mio primo desiderio, nel 1975, era stato quello di diventare un programmatore di computer: e soprattutto di avere un computer. Arrivò prima la macchina fotografica, la Kodak regalo di compleanno, quella del primo scatto; il VIC20 lo presi un po’ dopo, con i soldini di una borsa di studio della Cassa di Risparmio (mamma non voleva, ma il prof delle medie disse: “signora per carità, lo faccia giocare con il computer, domani sarà una professione”).

Le cose passarono: essere un programmatore di computer non era il solo desiderio di ragazzino che avevo. Per un periodo sognai fare il pilota (ma non potevo entrare in accademia: portavo già gli occhiali, e per trasferirsi e frequentare un tecnico fuori città ci volevano più soldini che per il VIC). Poi iniziai a scrivere: sono stato apprezzato come scrittore in erba a scuola, e volevo fare la carriera di giornalista. Ma anche in questo caso sapevo di non avere i soldi per l’università: mio padre non c’era e mia madre era senza un lavoro stabile, altro sostegno di famiglia che non fosse minimo non c’era – altri tempi altre scelte e cose che non sapevo o che comunque non dipendevano da me. La decisione quindi era stata quella di continuare gli studi in una scuola professionale e cercare un lavoro, da iniziare già a quindici anni, come altri amici. Capitò di discutere i programmi di studio del Volta, l’istituto tecnico di Trieste: era considerata, allora, una delle scuole migliori e fra le più severe. Insegnanti solitamente molto di destra (all’epoca non è che la differenza mi fosse chiara) e molto esigenti, tante ore da passare in classe e altrettante da passare a studiare a casa. La mia più cara insegnante, Maria Vigori, conosceva la mia situazione familiare, mi spingeva verso il Volta poiché offriva ottime opportunità d’impiego. Lì non conoscevo però nessuno, tutti i miei amici avevano deciso per scuole diverse: ero spaesato e preoccupato dalla prospettiva di dover andare da solo. Poi mia madre disse: “Lascia stare. Non puoi farcela, è troppo difficile per te”. Un paio di giorni dopo avevo deciso ed ero iscritto.

Nel 1983 ho comprato il mio primo computer. Gli anni Ottanta erano l’età dei primi calcolatori domestici; il mio primo era un Commodore VIC20, il VIC. Bello, ma ho capito subito che non era abbastanza per me: volevo più colori e più capacità, e soprattutto oltre ai programmi mi piacevano, naturalmente, i giochi. Avevo la sensazione che per me “studio” significasse “computer”, e nel 1984, con una seconda borsa di studio, ho comprato il mio Commodore 64. Era un caro amico, un compagno che è rimasto per tanti anni, durante tutta la mia carriera scolastica. Ho continuato a usarlo, sviluppare, attaccarci cose nuove, sperimentare software. E a scuola c’era un insegnante di tecnologia, Alessandro Predonzan: è rimasto con la nostra classe solo per un anno, ma ha introdotto i computer nel suo corso e ha spiegato come usare il BASIC e le tecniche più avanzate (lavorammo, per un paio di lezioni, sul Digital della scuola: Digital Compaq sarebbe tornata da me dopo i vent’anni). Ho ancora in un cassetto il libretto, la copertina strappata e poche pagine sul BASIC, che Predonzan ci aveva regalato; mi è caro. Grazie a quel corso, però, ho capito che non sarei stato mai un buon programmatore: altri erano più intelligenti (ricordo soprattutto Gabriele Cutazzo e Alessandro Gamboz), e fondamentalmente non ero molto incline a impegnarmi in matematica. Ma il mio Commodore, a casa, era il più sviluppato: aveva persino il modem (e chi ce l’aveva, negli anni Ottanta e fra i ragazzi, un modem SIP). Mentre altri erano in grado di scrivere meglio, molto meglio di me, un programma, io ero capace di mettere insieme le cose per avere in mano alla fine qualcosa di più veloce e con più potenza di calcolo. E soprattutto, il mio Commodore era collegato a una rete. Ho iniziato a capire quale fosse la mia strada.

I got you to hold my hand; I got you to understand. I got you to walk with me; I got you to talk with me. I got you to kiss goodnight; I got you to hold me tight. I got you, I won’t let go. I got you to love me so. I got you babe.

volare nel sole e un ricordo di Siviglia

0

Rodolfo era in ritardo, un problema di lavoro; mi ero divertito, quindi, a starmene seduto fuori dall’aeroporto, vicino al parcheggio, a guardare le persone. Non aveva intenzione di farsi aspettare troppo, comunque: mi aveva parlato al telefono di un appuntamento per entrambi alle sei e mezza. Arrivò di corsa, con l’auto più piccola dell’azienda, e in un attimo eravamo in autostrada. Appena salito in auto mi aveva detto: “Sei appena atterrato e volerai di nuovo entro mezz’ora”; non avevo capito cosa avesse voluto dire. Arrivammo con l’auto a una traversa che conduceva a uno sterrato; la pianura era vasta. L’Andalusia ha un territorio molto esteso, e da quella strada di periferia non si vedevano né la montagna né il mare; all’orizzonte, solo una forma vaga e distante, un tratteggio di quelle che erano le alture verso Granada. La terra era priva di alberi; c’erano solo una fattoria lontana circondata dagli ulivi, e il sole. L’aerodromo, perché queste erano le costruzioni che componevano il complesso di fronte a noi, aveva una zona riservata al corso di formazione tecnica, con sedie all’aperto, molto bella; vicino, c’erano un piccolo ufficio e tre hangar, abbastanza grandi da ospitare quattro o cinque aeroplani leggeri all’interno. Gli aerei leggeri possono essere spostati con le mani: è sufficiente sollevare il carrello anteriore spingendo sui piani di coda, e si tira facilmente l’aereo verso di sé. Ci sono molti aerei leggeri o ultraleggeri sul mercato, pensati e costruiti in modo da assomigliare agli aerei da turismo commerciali di categoria superiore. Emilio, l’istruttore – e il proprietario dell’aerodromo – aveva investito un milione di euro per costruire tutto, compresa la pista d’asfalto lunga 500 metri. Non male. E una piccola torre, per segnalazioni d’emergenza. Emilio rappresentava l’azienda Tecnam in Andalusia; Tecnam è un’azienda italiana con grande esperienza, leader nel settore dei velivoli ultraleggeri. Emilio possedeva un Tecnam p2002 Sierra; era quello l’aereo blu e giallo che ci aspettava sulla pista.

Inizialmente non capivo bene cosa sarebbe successo. O non ci credevo. Quindi ero come al solito silenzioso e concentrato. Rodolfo pensava che non mi stessi divertendo. Al contrario, ero semplicemente senza parole, quindi… non stavo parlando. Logica deduzione. Emilio e Rodolfo mi spiegarono come salire ed entrare nell’abitacolo (non puoi calpestare l’ala, ci sono solo pochi posti in cui puoi mettere il piedi e sul resto delle superfici ci sono gli adesivi ‘non calpestare’). Poi, una volta dentro, Emilio, che era salito dall’altro lato, spiegò ancora, rapidamente, la disposizione degli strumenti. Su quel p2002 Sierra avevamo tutto: orizzonte artificiale, bussola, navigatore, radio multibanda, non mancava nulla. Sarebbe stato come volare su un aereo più grande. Indossate le cuffie per parlare con il copilota e via radio fino alla torre di controllo di Siviglia, eravamo pronti. L’aeroporto di Siviglia ti fornisce tutte le informazioni necessarie, traffico aereo e meteo, e ti tiene d’occhio, mica sei un pilota in fondo. Il p2002 Sierra ha due controlli gemelli abbinati e gli istruttori ti seguono sempre, in ogni manovra, e prendono il comando quando necessario.

E poi, vai. Sierra decolla a 80-90 chilometri l’ora, non era stato facile mantenerlo dritto durante il mio primo giro. Ero in aria, e improvvisamente tutto era facile: sembrava un gioco ma sapevo che era tutto vero. Con il bel tempo e le condizioni di luce, un Sierra come quello è così facile da controllare; se non c’è vento, e in quel giorno non c’era, basta capire e impostare il beccheggio, e la forma e la geometria delle ali mantiene l’aereo livellato senza ulteriori azioni, non devi fare nulla. Se si toccano i comandi, l’aereo si tuffa o si arrampica leggermente, o si piega a sinistra o a destra, è sufficiente una piccola spinta gentile. Saliti a 300 metri, prima, e poi a 500, Emilio mi aveva affidato l’aereo completamente, dandomi le indicazioni per raggiungere la fortezza romana, a dieci minuti a est dall’aerodromo. Sopra la fortezza facemmo due giri completi: il paesaggio, sotto la luce rossa del sole che stava tramontando, lasciava senza fiato. Poi tornai verso la pista, controllando la direzione sulla bussola; sopra l’aerodromo, Emilio prese i comandi e portò l’aereo verso terra in due semicerchi. Siviglia ci avvisava di un Super80 che si avvicinava molto più in alto; potevamo vedere tutto sotto di noi, ma non avevo paura, il Sierra rispondeva perfettamente ai comandi. Sentivo la gravità sul mio stomaco, anche se stavamo volando solo a 130 all’ora: stavo guardando il mondo a testa in giù. Meraviglioso.

Emilio si occupò dell’atterraggio. È molto facile commettere errori se non si ha esperienza sufficiente, si può venir giù pesanti e rimbalzare o mettere il naso troppo in basso e si rompe tutto. Anche senza rischi, sarebbe stato un peccato: un Sierra usato costa circa 60mila euro. Emilio (non parlava l’inglese bene, ma ci si capiva) mi disse che avevo pilotato bene, ma che all’inizio ero stato troppo rigido e nervoso; una volta passata l’emozione, tutto era andato meglio. Dopo il mio giro, toccava a Rodolfo per un volo più lungo, lui stava già praticando il decollo e l’atterraggio per ottenere la licenza. Poi aiutammo Emilio a riporre il Sierra nell’hangar e ci separammo, camminando verso l’auto per tornare a Siviglia. “Tapas” insieme e un buon bicchiere di vino. Per un pò, non parlai; poi l’abbracciai. Un vero amico. Non se lo aspettava; gli dissi che volare su un aereo con le mani sui controlli e l’azzurro davanti a me era stato un sogno di bambino, e che ero sempre stato sicuro che non sarebbe mai diventato realtà. Era contento; stava vedendo ora la felicità nei miei occhi. La stessa felicità che stavo provando per aver deciso di andare a Siviglia nonostante tutto il resto. Lasciando casa avevo avuto la sensazione che sarebbe stato grandioso, e non sapevo perché; avevo seguito di nuovo l’istinto. Porto sempre i miei sogni con me, nel mio cuore. Quando sono sicuro che qualcosa non può più accadere perché è tardi, perché non c’è tempo, perché non può essere, perché perché – quando sono sicuro che non possa più accadere, improvvisamente accade. Non sarà sempre così, ma lo è stato molte volte. Vedo il cielo di Siviglia, se chiudo gli occhi e ripenso a quel giorno; sono ancora lì, a volare sotto nel sole, le case bianche e la terra rossa. Sono libero. E sono felice.

immagini qualunque

0

Henri Cartier Bresson disse: “La cosa più difficile per me è il ritratto. Devi provare, e mettere la tua macchina fotografica fra la pelle di una persona e il suo abito”. Barthes, parlando di fotografia, scrisse: “Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa, l’immagine non è più un’immagine qualunque”. “È così che il fotografo da’ vita; se, per mancanza di talento o per disavventura, questo fallisce, il soggetto muore per sempre”. Se, per mancanza di quel talento, o per caso, la fotografia che ritrae non è ‘viva’, l’occasione è perduta. Nella foto dobbiamo sentire quel ‘particolare’: “la sua sola presenza modifica la mia lettura”, dice che “quella che sto guardando è una nuova foto, contrassegnata ai miei occhi da un valore superiore. Questo particolare è ciò che mi punge”.