Un numero molto grande di pensatori si è interrogato, da quanto l’uomo ha iniziato a pensare a oggi, sul significato dell’arte. Serve o non serve? Se serve, a cosa serve? L’arte è uno spreco di tempo e ancor peggio, di questi tempi, di denaro impiegato in cose inutili? Filosofi ispirati da Heidegger, esistenzialista – l’esistenzialismo ritiene il valore dell’, appunto, esistenza umana come fondante e cardine di riflessione – ritengono che l’arte sia il mezzo attraverso il quale la comunità e il singolo si esprimono e interpretano le cose della vita. Secondo gli esistenzialisti l’arte è capace non solo di manifestarsi all’interno di una cultura, ma di cambiarla dall’interno, rivelando mondi nuovi e interiori e permettendo la condivisione. Prima di Heidegger già Hegel riteneva che l’arte fosse espressione di cultura e più in generale dello spirito dell’uomo, ritenendola l’attimo in cui la vita di un particolare individuo raggiungeva il suo apice rivelando la sua vera natura in un modo intuitivo. La nostra mente, quindi, ruota attorna all’arte da sempre, così come non smette mai di cercare di comprendere il significato dell’esistenza stessa. La domanda però è: l’arte è capace di produrre verità? Platone era convinto di no, Hegel di sì: in fin dei conti, artisti dell’Ottocento, l’epoca dei grandi filosofi tedeschi, sono stati capaci di mostrare il mondo in cui vivevano e non solo la sua rappresentazione allegorica o il mito. Il punto finale di questi due minuti di riflessione a fine giornata è che struggersi nel cercare di capire se l’arte possa rappresentare qualcosa con certezza, tratteggiando, almeno, una verità, ma se possa suscitare in noi emozioni tali da farci raggiungere una migliore e più completa comprensione della realtà e trasmettere conoscenza. “L’arte è una bugia che ci fa capire la verità, perlomeno quella che ci è dato di capire”. Picasso. “Lo potevo fare anch’io”, invece, è un bel libro di Francesco Bonami sull’arte contemporanea che mi è stato fatto conoscere, assieme a molto altro, negli anni in cui ho sfiorato l’arte muovendo i primi veri passi da fotoamatore; una lettura che consiglio.
ricordasempre. dal racconto d’autunno
Le guardie erano lì. Ne era certo, perché il gatto era nervoso: non si avvicinava al muro del giardino, continuando a guardare verso l’alto. Sentiva qualcosa. Sicuramente, oltre le verdi e spesse foglie appuntite dei rampicanti che arrivavano fino in cima, oltre la strada che stava al di là della barriera, sedevano gli uomini con lo stemma bianco e le lunghe spade. Guardò Arcil. Era bella; pallida. Avvolta nel manto di pelliccia, portava addosso solo l’abito bianco di seta con i simboli dorati del sole nascente, fissato con una cintura bianca e ornato da fregi di rame. I capelli neri, sciolti, le cadevano in modo disordinato sulle spalle e lungo la schiena. “Loro sanno”, le disse; non era una domanda. “Certo”, rispose, appoggiandosi a lui, la testa sul suo petto. Erano seduti sotto la quercia, sul tronco, più piccolo, di un albero sconosciuto e meno nobile caduto chissà quanti anni prima. Si tenevano per mano. Le sue mani, lunghe e affusolate; le sue dita delicate, quasi gelide durante l’inverno e fredde anche d’estate. Le mani calde e grandi di lui, piene di cicatrici, indurite dal duro lavoro.
“Tutti lo sanno”, gli disse, parlando piano. La sua voce era sempre bassa, quasi rauca: l’amava così tanto. “Quando vengo qui, nel parco, c’è sempre qualcuno che mi guarda. Che mi osserva, che pensa a me. Oggi ci sono i soldati. Ma non è sempre così. A volte c’è l’uomo che ripara il recinto, o l’ambulante che vende le mele, oppure la bambina che mi porta il miele, è tutto parte della mia vita. Lo è stato sempre. Sono tutti dell’Ordine. Le mie guardie del corpo”. Si accoccolò tra le sue braccia, sentendo il suo calore. “La città è mia. Il mio governo; il mio diritto”. “Sei ancora Arcil”, disse lui. “Solo per me”. La baciò dolcemente sulla sua testa, poi sulle labbra. “Sei la moglie del signore, ma non sei più una principessa, qui a Ostelar”, disse ancora. “Lo so”, rispose lei. “Ma lo sono stata per così tanto tempo, Thaen. Non riesco a fingere che non me ne importi”. “Tu volevi esserlo”, disse Thaen, “e tutto ciò che avevi ti spettava”. “Sì, lo desideravo”, rispose Arcil, “ma non più”. Thaen poteva sentire che era nervosa, ora; infastidita da quello che lui le aveva appena detto. Si sentiva in colpa; non voleva ferirla. Era complicata. Tutto, ora, con la presenza di Arakhon nella sua vita, era diventato così complicato. “E cosa desideri di più adesso, mia bellissima principessa”? Le accarezzò le spalle e le baciò dolcemente il collo, vincendole un sorriso. “Oh, ora mi stai prendendo in giro! Non è bello da parte tua”. Gli diede un colpo con il gomito. “Sono la tua signora, tu sei il mio cittadino e ti condannerò, ti farò frustare in piazza…”. “Solo questo?” La baciò ancora. “Lo farò di sicuro! Finché non mi pregherai di smettere… ma userò una frusta di fiori e un morbido arbusto, solo quello… e ti punirò con la lingua, dal tuo petto alla tua pancia e…”. “Capisco”; l’interruppe. Fecero l’amore all’ombra dell’albero, lentamente, in silenzio. Dolcemente. Sotto il suo mantello, senza spogliarsi.
“Non mi sento a mio agio, veniamo qui troppo spesso”, disse Arcil, sospirando. Erano ancora sdraiati sull’erba, avvolti nel mantello. Guardavano il sole, che si avviava al tramonto. “E perché”? Chiese Thaen. “Quando sei qui, quando siamo insieme, è il momento migliore della mia giornata. Sono così felice”. “Amore estivo. Si spegnerà con l’autunno”, rispose lei. Dentro di sé, in fondo all’anima, Arcil sentiva un dolore sordo; lasciò che passasse e lo abbracciò più forte. “Non lo è, Arcil. E tu lo sai”. Arcil annuì, ma il dolore tornò. “Dal momento in cui ti ho incontrato, mi sento bene. Se non ti avessi incontrato… non lo so. Forse sarei morta, ormai. Ero così sicura che sarei morta da sola. Volevo solo il silenzio, e svanire. Poi, sei venuto, è stato come… vedere di nuovo la luce. Si, è stupida come visione, però è così. Ho bisogno di te”. “Sono qui, principessa. Ma lui tornerà, Arcil. Tornerà a casa. E poi, cosa faremo”? Lei rimase silenziosa. Per un lungo momento. E Thaen, mentre aspettava, pensò che il suo cuore avesse smesso di battere. Poi Arcil parlò, calma, determinata. Arcil la principessa; Arcil, la regina di Ostelar. Come Thaen si aspettava che fosse.
“Continuerò a essere sua moglie, Thaen. La moglie di Arakhon. Non posso fare nulla di diverso. Potrei avere il potere di chiedergli di nuovo la mia libertà, di fronte ai magistrati e anche al Consiglio. I cittadini di Ostelar non mi incolpano di troppo. Arakhon è diventato una leggenda, eppure questo è il luogo in cui è nato e c’è chi ricorda gli anni di prima. Aveva anche altre donne, in tutte le Sette Terre, tutta la città lo sa… e ha figli avuti dalle sue amanti. Potrei lasciarlo. Potrei riprendermi, di diritto, i miei castelli”. Thaen, per un attimo, ebbe un fremito: sapeva cosa quella decisione poteva portare. “Ma non lo farò mai. Un ripudio della nostra unione spezzerebbe il suo potere e la sua influenza, e causerebbe nuovi disordini. Mi aspettavo che Arakhon reclamasse, finalmente, il trono dei Valdali, per la prima volta dopo secoli; e con me al suo fianco, lo avrebbe vinto, sarebbe diventato il re, un pari di Elessar, e io la sua regina. Ma lui mi ha delusa, Thaen… davanti a tutti. Ero in ginocchio, a piangere: l’ho supplicato. Di fronte al gran Re del Nord, di fronte a Elessar, Arakhon mi ha tradito. Ho persino pensato di mettere fine alla mia vita: ho pensato di chiedere al più fedele dei miei soldati di uccidermi, proprio lì, davanti a loro. Aginor è veloce e preciso: sa come arrivare al cuore con il suo coltello. Un momento, e tutto finisce”. Arcil fissava qualcosa di fronte a lei, un punto lontano nel cielo, o forse stava semplicemente guardando il nulla. Persa nella sua ritrovata solitudine. Si alzò, coprendosi il seno nudo e la schiena con il mantello di Thaen e lasciando il suo a terra; quando parlò di nuovo, la sua voce era più forte. “Ma siamo andati avanti. Negli anni, ho imparato a conoscere Arakhon, e lo rispetto. Non l’ho mai amato, e lui lo sa bene. Non l’amerò mai. Siamo troppo diversi. È un grande uomo durante il giorno, e un grande amante la notte, quando ne ho voglia. Non è mai cattivo, trovo in lui molta generosità. Di tutte le persone che ho incontrato nella mia vita, lui è l’unico che… è l’unico che definirei un uomo decente. E tu, Thaen, certo. Ma è anche rozzo, Arakhon: inelegante. Non è ignorante, no: ha studiato duramente per poter essere quello che è ora. Ha sofferto. Arakhon è un principe con i modi di un vaccaro. E balla come un vaccaro. Oh, mi piace molto ballare con lui, a volte… può far sentire importante una donna. Che è, per noi nella Terra dei Sette, cosa non comune. Spesso, c’è stato odio e amarezza fra noi: ma non più”. Si alzò, sistemandosi di nuovo e tirando la cintura sui fianchi, dando al vestito la forma del suo corpo. “Inoltre… non è un vero uomo, non è uno di noi. È di sangue misto: Arakhon è figlio di una donna che era, per parte sua, di pelle bronzea, una figlia bastarda di avventuriero. No, non ho amore per Arakhon: come potrei. Amo i figli che mi ha dato però: li amo così tanto, e questo è un motivo in più per donargli il mio rispetto: per la sua forza. Sono una donna fragile, Thaen, sono sempre stata fragile. Tutti mi hanno detto che sarebbe stato molto difficile per me avere un figlio. Ma Arakhon ha un seme forte: non pensavo di poter esser madre, ma ho fatto invece in tempo, prima che il mio corpo diventasse ciò che è adesso. No, non lo amo, Thaen. Amo te. Ma devo stare con lui. Voglio”.
“E se dicessi di no, Arcil?”, chiese Thaen. “E se me ne andassi di nuovo in mare? Come posso trovare la forza per vivere qui, sapendo che non posso incontrarti e stringerti e baciarti quando desidero farlo? Sapendo che non posso parlare con te quando tu e Arakhon siete assieme. Devo continuare a fingere di conoscervi solo come i miei padroni, e sperare che nessuno gli dica la verità? Meglio andar via”. “Mi spezzerai il cuore, allora. Mi spezzerai. Non immaginerei mai di poter amare un altro uomo, dopo tutto quello che è successo. La mia sofferenza, le lacrime. Dormire di notte, sognare di esser felice, poi svegliarmi nella mia stanza, da sola, al buio. Piangendo. Non possiamo stare insieme, Thaen; ma non possiamo separarci, no, non voglio pensare che te ne andrai… ma… capisco. Se lo fai, capirò”. Stava piangendo, ora. Per un altro lungo momento rimasero di nuovo in silenzio. Guardandosi l’un l’altro. La strinse di nuovo: l’afferrò per la vita, caddero e rotolarono sull’erba. Risero fino a restare senza fiato, lui supino e Arcil sopra di lui. “Ti amo. Rimarrò, Arcil; per sempre. Non importa cosa farai. E non ti chiederò mai qualcosa che non sei pronta a dare”.
kafka tu che kafko anch’io. PA e l’hardware obsoleto
Se per caso un giorno o l’altro ti trovassi solo sai, senza una compagna che poi ti aiuta nei tuoi guai. E se poi il cielo blu si chiude all’improvviso su di te, e ti senti come un ladro che ha paura anche di sé, guardati allo specchio e guarda un poco, un poco intorno a te.
Reduce da un pomeriggio di considerazioni sulle pubbliche amministrazioni, sul diritto all’oblio dei dati speciali e sull’intrinseco potere dei funzionari in una società post borbonica o post asburgica che sia, m’imbatto nel post molto interessante di un amico. Le pubbliche amministrazioni hanno deciso di compiere un atto generoso e, anziché buttarli via, donare i loro vecchi personal computer ad altri enti pubblici o privati senza scopo di lucro che ne facciano richiesta. Molte aziende lo fanno da decenni, anche se la procedura, proprio a causa di lacci e lacciuoli statali, non è mai agevole, essendo in pratica nel nostro paese quasi illegale regalare. Fin qui bene: un passo avanti. Lette le modalità, m’imbatto nella pagina numero cinque del documento che, con riferimento a una nuova procedura che l’ente pubblico ha deciso di battezzare Phoenice ovvero Procedura Hardware Obsoleto ENtrate In Cessione a Enti (citazione: “The lauda ‘O Signor, per cortesia’ is a striking prayer that God will afflict the speaker with a long catalogue of diseases and other misfortunes in both life and death” – e mi viene in mente che l’animo poetico dell’autore del nome possa aver pensato alla nuova vita ridata ai preziosi oggetti elettronici, che rinasceranno dalle proprie ceneri), spiega come vengono gestite le situazioni di parità: “Al momento della formulazione della domanda attraverso l’applicativo Phoenice sarà necessario indicare 3 numeri diversi compresi tra 1 e 90. Un quarto numero sarà generato automaticamente dall’applicativo a partire dal Codice Fiscale del richiedente. Questi numeri serviranno per ordinare la graduatoria delle richieste aventi la medesima priorità. Essi saranno infatti confrontati con i primi quattro numeri del lotto estratti sulla Ruota Nazionale…”. Di colpo, mi sento più sereno.
Solo tu mi sai dare, cose vecchie sempre nuove da sognare. Mille volte tu lo sai, non è stato uguale mai.
sam8centimetri. Never going home
Music (we can do it). We’re only human (I can feel it). Music (got me, hit it). Yeah, let’s repeat it (can you feel it?). If you wanna ride, come ride with me. Take me by the hand, feel the chemistry. Losing track of time in the ecstasy. It’s getting out of hand, it’s just you and me. And we are never going home, oh-whoa, oh-whoa.
Sam 8 centimetri, il mio piccolo amico superdotato, ha viaggiato con me in tutte le mie automobili, dal primo chilometro dell’Alfa rossa a guida inesperta finestrini manuali e clacson rotto, fino all’ultimo, piuttosto stanco, della Volvo con il turbocompressore otturato. Accompagnandomi sulla Prelude dei giorni più felici da Monaco a Tatti, sull’Audi della maturità da Genova ad Amburgo, per qualche tragitto sull’Y10 bianca nelle strade di casa mia e infine da Bologna a Vienna sulla dannata Volvo Kinetic configurazione nordica, l’auto che non avrei mai voluto e che pure è stata l’unica che io abbia mai preso nuova, che ha fatto ormai nove traslochi (uno mio e nove no), che porta con sé più ricordi brutti che momenti belli, e che però non se ne vuole mai andare. Scherzi a parte, è sempre stata generosa con me, la Volvo: fedele nonostante la trascuratezza e le male parole, ed è giusto tributarle riconoscenza, in fondo appunto c’è ancora. Assieme a Sam, grigio ormai di capelli, ma sempre con i suoi 8 centimetri.
If you wanna fly, come fly with me. We’ll go anywhere that you wanna be. If you’re feeling down, here’s the remedy. Losing track of time, it’s just you and me. And we are never going home, oh-whoa, oh-whoa.
ritratto. Wouldn’t it be good
We got the pleasure in the right way. Il ritratto è da sempre un modo di raccontare una persona, di parlare di lei o di lui senza che le parole siano necessarie. Attraverso la storia, il ritratto è stato molte cose: una maniera per rappresentare con semplicità un viso, uno strumento per descrivere un contesto, un omaggio a una figura potente o a un dio. Nella società dell’immagine, quella di oggi, si è evoluto fino a diventare prima fonte d’ispirazione, poi astratto e poi, con l’intelligenza artificiale, persino irreale nella sua inequivocabile realtà. Chiunque sia il soggetto, il ritratto cerca di rivelare la sua espressione più intima, di catturare l’emozione di un momento che altrimenti verrebbe per sempre persa. La fotografia, peraltro, e quella digitale incredibilmente molto di più di quella stampata su carta, si perde per sempre in un attimo. Attraverso il ritratto, il soggetto rivela la sua natura all’artista, si mette a nudo o viene messo a nudo come più maestri fotografi, e meno pittori, hanno detto?
Il ritratto rivela la personalità di chi sta di fronte all’obiettivo? Niente potrebbe essere meno sicuro e anzi, e meglio: niente potrebbe essere più falso. In effetti, che cosa c’è di più semplice del nascondere la propria identità dietro una maschera o un personaggio, come si fa con il viso ammantato di trucco sul palcoscenico di un teatro? Il viso è la parte più in mostra del nostro corpo, eppure rimane, attraverso la storia, la più misteriosa, quella che più si presta al racconto e al romanzo, al sacrificio, all’amore e all’inganno. Specchio dei sentimenti, o corazza dell’animo. La tecnica e l’intuizione creativa permettono a un bravo fotografo ritrattista di usare le espressioni per inventare le emozioni, eppure allo stesso modo si può essere capaci di intravedere e catturare la spontaneità. Inutile perdersi qui a dire che bisogna essere capaci, come fotografi, di capire la fisicità del soggetto nel suo complesso, di trovarsi in sintonia con il suo modo di essere e di esprimersi, di capirne lo stato d’animo; inutile parlare di luci, fondali e colori, questo non è un blog sul quale si insegna la fotografia. Al massimo se ne può scrivere di getto, lasciando alle foto il ruolo di protagonista. Vanità. Day by day by day by day: è più facile capire la verità e la vita, se si pensa che siano un gioco.
le tribolazioni di un italiano in Italia
Il piccolo borghese Ita-Lian scopre di essere andato in rovina a seguito delle speculazioni finanziarie delle banche e di chi, a seguito di oscure trame di potere, per politica o semplicemente per dabbenaggine mista a egoismo, ha approfittato di una guerra e di una pandemia. Temendo l’abbassamento del suo livello sociale e la fine della vita di piccoli agi a cui è abituato, Ita-Lian decide di suicidarsi, ma non avendo il coraggio per farlo da solo incarica dell’opera il suo amico Wang, presidente del suo ordine professionale, che è parte della pubblica amministrazione e quindi organo vivente della Nomenclatura dello Stato. Per dare ulteriore motivazione al presidente, Ita-Lian stipula una ricca polizza sulla vita indicando come beneficiari la sua vecchia giovane innamorata Le-U e Wang stesso. Infine, per scagionarlo da ogni conseguenza penale, gli spedisce una email liberatoria contenente un pdf firmato con estensione .p7m, che lo assolve da ogni responsabilità. Wang scompare in attesa di eseguire il compito entro il 31 di gennaio, data di scadenza del pagamento per l’iscrizione annuale, ma, pochi giorni dopo, arriva il colpo di scena: la speculazione ha avuto successo e ora Ita-Lian è più ricco di prima. La gioia per la notizia è oscurata dalla spada di Damocle che pende sulla testa di Ita-Lian: se non riuscirà ad avvisare Wang della sua mutata fortuna e a pagare il canone via Internet con PagoPA, quest’ultimo lo ucciderà, come da precedente accordo. Ecco che allora si mette in viaggio alla ricerca dell’amico Wang assieme a un commercialista, a un tecnico informatico e a un consulente del lavoro, dando il via a una lunga serie di vicende e di ulteriori colpi di scena.
occasioni uniche. Identità di genere
Il tema è talmente sensibile da essere, oggi, più infiammabile, e spesso tossico, del propellente avio. Avvicinarsi a un’opinione sul binario o non binario che non sia essa stessa binaria (sì/no), ed esprimerla pubblicamente, può voler dire rischiare l’ostracismo o ritrovarsi appiccicata addosso per sempre l’etichetta di ‘boomer’. Essere ‘fluido’ vuol dire non essere né sessualmente uomo, né donna (biologicamente, con buona pace di chiunque, l’appartenenza a un genere ben preciso alla nascita non si può negare); essere fluido vuol dire sentirsi sia uomo che donna, identificarsi in entrambi, ma siccome questo è impossibile, sempre per le note difficoltà biologiche, vuol dire provare attrazione sessuale ma soprattutto, penso che questo sia più importante, impulso emotivo (innamoramento? Amore?) indifferentemente per una donna o per un uomo. Un fenomeno sempre più diffuso in Italia; già molti anni fa ho partecipato, con piacere e anche con una punta d’orgoglio, con le mie fotografie a più di un progetto sull’omosessualità. Nella sessione fotografica e video conclusiva di un progetto musicale proprio su questo tema, tutto si è concluso con un coming out, ed è stato un bel momento. Ho amici omosessuali, donne e uomini, di diverse età; purtroppo li incontro poco, questo però accade perché il tempo ti distanzia e per nessun altro motivo.
Il tutto, altrimenti mi dilungo troppo, per dire che è proprio per questo che non credo nella fluidità di genere. Temo che il business alle sue spalle sia talmente grande, e talmente influente, da mettere a rischio, presentando loro modelli e mode, molti adolescenti. Se un ragazzo o una ragazza adolescente si sente oggi, in Italia, confusa o confuso, non è certamente da solo: i modelli della mia ‘Generazione X’ sono completamente caduti e la generazione che ha seguito la mia è stata in grado di proporre, pur nel timore dell’Aids, la libertà sessuale totale e assoluta (in termini di individualità e di ricerca di godimento nel rapporto sessuale con l’esclusione a priori dell’idea dei figli, iperbolicamente scrivendo) ma non di identificare modelli sociali nuovi che potessero prendere il posto di quelli cancellati. I nativi digitali sono quindi oggi da soli a cercare sé stessi: moltissimi adolescenti mettono in dubbio la loro appartenenza a un genere sessuale, sia maschi che femmine, e dicono di non capire se si sentono uomini, donne, tutti e due, nessuno o qualcosa. Alcune nazioni, anche se oltre al business c’è anche la politica a dire la sua, accettano meglio di altre le differenze di genere, l’Italia non è in una posizione altissima della classifica e oggi presumibilmente lo è meno di prima, più per troppa vicinanza al centro cattolico che per timori derivanti da derive a destra. Per un adolescente, poter dire di sentirsi per davvero appartenente a un genere, in un 2022 in cui certo il modello maschile non è più John Rambo né quello femminile è Sharon Stone, è complesso, in particolare se gli interessi, le attitudini e la vita sociale non coincidono più con le aspettative della società stessa nei confronti del genere di appartenenza alla nascita, di cui si parlava all’inizio. La pubertà è il periodo indubbiamente più difficile ed è per questo che una confusione e un desiderio di fluidità, e la possibilità che ci sia vero amore, e vera attrazione sessuale, nei confronti dell’amico o dell’amica più cara è tutto fuorché strano, è qualsiasi cosa tranne che contro natura e non ci sono di mezzo nessuna malattia e nessun problema mentale. Il corpo cambia; la vita cambia. Questi cambiamenti vanno per forza descritti, è proprio necessario incasellarli in un: sono gay, sono lesbica, sono bisessuale, sono polisessuale o pansessuale o asessuale? Io non credo. Trovo ridicoli gli acronimi (anche le Quote Rosa, a dire il vero). In fin dei conti non credo neppure che, nella vita adulta, l’identità di genere e l’orientamento sessuale possano essere per davvero considerate, e manifestate, in modo separato. O che cambino, adolescenza alle spalle, con il tempo: ecco, questo è importante. Se, ed è una certezza, la discriminazione di qualsiasi natura può significare la perdita d’autostima e un pozzo di tristezza, di disperazione per una ragazza o un ragazzo, la depressione e l’isolamento dagli altri, forzarlo verso la fluidità, magari spingerlo in un modo o nell’altro e anche indirettamente verso le terapie ormonali anche perché esistono vie parallele che permettono di mettersi in mostra (Onlyfans: e cosa desideriamo, noi, più di ogni altra cosa se non l’autoaffermazione?) – terapie oggi reversibili ma mai del tutto, può provocare la stessa situazione, che peggiora con il passare degli anni. Gli anni Settanta hanno sdoganato la pornografia: c’era bisogno di fare del business, un mercato di grandissimo potenziale andava riempito, e tutti i peli del corpo scomparvero, rovinavano le riprese, soprattutto in primissimo piano. L’eiaculazione dev’essere pulita, con tutti i dettagli. Gli anni Venti del duemila stanno sdoganando la fluidità di genere: c’è un nuovo mercato, forse di potenziale ancora più grande, da riempire con abbigliamento, colori e giochi, e il sogno erotico non è più l’illegale Lolita ma il transessuale o, ancora meglio, la (il?) Sissy e si scopre che lo è anche per molte donne. Siamo ben oltre l’accettazione, che finalmente è arrivata, della naturalezza dell’omosessualità. Questo nuovo mercato fluido lo guardo con inquietudine.
generazione. X senza meta o rotta
C’è una scena in ‘Metropolitan’ (film cult di Whit Stillman, che nel 1990 rappresentava il quarantenne di oggi, la cosiddetta ‘Generazione X’, durante gli anni del college); in questa scena due ragazzi incontrano in un bar, a Manhattan, una strana forma di vita: un quarantenne. L’uomo, tra un drink e l’altro, spiega loro due dolorose verità. La prima è che amici e ragazze che avevi a diciannove anni e che credevi sarebbero stati tuoi amici per tutta la vita – diventeranno, crescendo, estranei a te. La seconda è che quando sei ‘quarantenne’, quando incontrerai qualcuno della tua stessa età che ha avuto più successo di te nella sua vita, non risponderai a cuor leggero quando ti chiederà: ‘Qual è il tuo lavoro’.
Perché quando hai vent’anni la possibilità di non diventare ciò che sogni è fuori dal tuo radar. A trent’anni, sei un po’ preoccupato. A quaranta, sei sicuro di non averlo fatto: sei sicuro di essere passato dallo status di ‘troppo giovane’ a quello di ‘troppo vecchio’, perché anche in un paese dimensionato per i sessanta come l’Italia è, non puoi fingere, a quaranta, di essere considerato – a parte gli apprezzamenti che provengono dal tuo simpatico zio – giovane. Il New York Times ha recentemente scritto della ‘crisi che precede la mezza età che si diffonde tra la gente della ‘Generation X’ (nata, più o meno, tra il 1964 e il 1979, resa immortale da Douglas Coupland nel suo libro dallo stesso titolo, ‘Generazione X’); hanno citato ‘Greenberg’ come esempio, il film con Ben Stiller musicista ‘quarantenne’ che ha fallito nella sua vita, costretto a vivere nella casa di suo fratello: perfetto esempio di un eterno adolescente che affronta la morte di tutte le sue speranze. Il New York Times ci dice che è una contraddizione: ‘Com’è possibile che la generazione che sceglie di avere come segno culturale il rifiuto di crescere, com’è possibile che ora questa generazione abbia una crisi di mezza età?’. Questa generazione ha quell’ ‘abbiamo fatto del nostro meglio’ come motto, e spesso, a quarant’anni, scopre che tutto si è svolto al di sotto delle aspettative: delle sue aspettative, e di altre. Chi non ha mai abbandonato l’adolescenza – perché era pigro, o forse per non diventare come i ‘vecchi’, ora dopo il quarantesimo compleanno scopre di essere nei panni degli altri, vestendo gli abiti della maturità in modo incerto. Un libro che sta per essere pubblicato negli Stati Uniti, ‘Imperial Beedrooms’ di Bret Easton Ellis, è la continuazione, venticinque anni dopo, di ‘Less Than Zero’ (edito da Einaudi), pietra miliare della ‘Generation X’. Dopo molto tempo, i personaggi di Ellis non sono cambiati affatto, rallentati dai loro stessi limiti: e uno di loro muore. Almeno un altro romanzo, ‘Indecision’ di Benjamin Kunkel (pubblicato nel 2006 da Rizzoli) ha detto le stesse cose, mascherandole, tuttavia, con le scuse sulla ‘pillola che cura l’incertezza’. Ahimè; esiste solo nell’immaginazione dell’autore. E così sei da solo, ad aspettare in fila in un negozio di videogiochi, sentendoti a disagio per essere circondato da ragazzi delle scuole elementari (a proposito, nei tuoi giochi vincono sempre, e tu perdi). E il tuo caro amico commenta che i tuoi capelli bianchi sulle tempie hanno un fascino, ‘l’uomo maturo ha il suo fascino’ – e tu pensi: ‘maturo’?, sì, in molti sensi.
La maturità è negli occhi di chi guarda (dentro sé stesso), specialmente per coloro che si sforzavano di essere ‘diversi dalla generazione precedente che li precedeva’. Avevano ideologie forti, erano legati al potere accumulato (grande potere, piccola potenza). Erano nostalgici nei confronti di quell’Italia in bianco e nero e ricordavano ‘Carosello’, che per te non è mai esistito. O lo ricordi a malapena. Quello che hai cercato di fare, crescere, è stato un tentativo: cerca di essere un buon marito, prova ad essere un buon padre, proprietario di una casa acquistata con un mutuo a tasso variabile, un uomo diverso da mariti, padri ed eccetera che hai visto – e non giudicato – della ‘generazione precedente’. Alla fine hai capito, durante una notturna maratona di videogiochi, che eri sepolto nel divano di casa esattamente come lo erano loro e che la tua volontà di trovare un modo diverso di diventare adulto colpiva la realtà di molti alibi che era sempre così bello scoprire. Si trova sempre un nuovo alibi per qualcosa. Ecco perché il tuo quarantesimo compleanno è stato anche un’esperienza meno piacevole rispetto al quarantesimo compleanno della ‘generazione precedente’. Per proteggerti dalle conseguenze delle aspettative mancate sul tuo futuro, quando il futuro finalmente è lì, anche schermarti con l’ironia non è abbastanza. L’ironia, come tutti sanno, è l’arma dei deboli.
[“Il Corriere della Sera” del giugno 2010. Sotto l’articolo, un commento: “Ma va là… oggi a quarant’anni si cambia vita, e si ricomincia… se davanti ne hai ancora almeno 40, qualcosa dovrai pur fare, no?”. Disegna perfettamente la mia generazione, incapace di capire che il tempo scorre in una sola direzione e che non si ricomincia mai. E che se qualcuno ti ha fatto veramente credere che ha 40 anni davanti ne hai altri 40, hai sbagliato candeggio. Nel frattempo, da questo articolo di compleanni ne sono passati altri dodici]
secondo sesso potere primo
Nel “Secondo sesso” (1949), una delle sue pubblicazioni più note che si riassume in mille pagine di critica in due volumi alla società patriarcale, Simone de Beauvoir analizza la situazione delle donne (del tempo). Il libro è la pietra su cui il femminismo moderno (ma dell’epoca) fonda la sua chiesa. Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir è un filosofo (maschile voluto) esistenzialista, figlia di un’agiata famiglia parigina (padre avvocato con aspirazioni d’attore, madre nata da un ricco banchiere); la famiglia, dopo il primo conflitto mondiale, perde gran parte della sua fortuna ma ne resta a sufficienza da permettere a Simone di studiare alla Sorbona e di fare l’intellettuale. Beauvoir, che avrà una vita talmente ricca di relazioni aperte e di amanti di ambo i sessi al punto da mettere in ombra il suo indubbio spessore accademico e il suo forte e risoluto impegno politico, sarà poi compagna per cinquant’anni, ma libera e senza figli, di Jean-Paul Sartre. Dirà e scriverà con convinzione che donne non si nasce, ma si diventa, e che il genere è un costrutto sociale e non un’identità biologica.
Nel “Secondo sesso” Beauvoir parla della Bibbia e della mitologia, sostenendo che le donne fossero etichettate come “altri”, considerate inferiori agli uomini e rappresentate come la parte colpevole o debole del creato. Secondo Beauvoir, è stato l’uomo a definire la donna come il lato inferiore della medaglia dell’umanità e a privarla del diritto a ricoprire ruoli di responsabilità. Nel suo altro libro, il “Manifesto” (1971) scriverà: “Avrò un figlio se ne vorrò uno, senza pressioni morali, istituzionali o economiche che mi obblighino a una scelta”. Dirà anche: “Il punto per le donne non è semplicemente togliere il potere dalle mani degli uomini, perché questo non farebbe cambiare niente nel mondo. È quella nozione di potere che va distrutta”. Suella Braverman, Olena Zelenska, Sanna Marin, Elizabeth Truss, Zuzana Caputova, Katerina Sakellaropoulou, Kersti Kaljulaid, Magdalena Andersson, Ingrida Simonyte, Katalin Novak, Ursula von der Leyen, Roberta Metsola, Mette Frederiksen, Elisabeth Borne, Salome Zurabishvili, Katrin Jakobsdottir, Vjosa Osmani, Maia Sandu, Natalia Gavrilita, Ana Brnabic, Nicola Sturgeon. Giorgia Meloni.
salto. Casa è il Dart che ferma a Clontarf
Niente può toglierti i desideri, o cancellare i sogni. Oggi desidero essere a casa. Nel mio cuore, la casa non è il luogo in cui sono nato. Amo Trieste, sono felice di viverci; vivere qui non è più vivere a casa. Non è il posto dove desidero essere ora. La casa è Marino. La casa è Dublino. La casa è la cena con Joe e Ann, la casa è dove sto parlando con Ciaran, il Trinity, al pub. La casa è il vento tra i capelli e nei miei occhi. La casa è il ponte e il castello e il Dart, la casa è camminare mano nella mano, giù sul lato del Liffey. La casa è la vigilia del nuovo anno, insieme, sul tappeto blu, accanto all’albero. La casa è lì, per me; lo sarà sempre. La casa è il 1999; oggi voglio tornare a casa.